Un “pezzo di pane”

I sapori semplici danno
lo stesso piacere dei più raffinati,
l’acqua e un pezzo di pane
fanno il piacere più pieno a chi ne manca.
(Epicuro)

I ricordi sopiti di quando ero bambino ritornano con improvvisa forza quando, passando davanti al panificio, respiro il profumo del pane appena sfornato. Ne sono inebriato e la mente corre a quando, da piccolo, con i pantaloncini corti, e con ai piedi i sandali chiusi, dalla punta consunta per i calci tirati al pallone, correvo felice per le stradine sterrate attraverso i campi di spighe, fino al punto più alto di essi.

Da lì, come la piccola vedetta lombarda di deamicisiana memoria, mi perdevo ad ammirare quel mare giallo sulla cui superficie il vento disegnava, accarezzandola, giochi infiniti della durata di attimi. Poi la mietitura, la raccolta, la sgranatura a mano e la corsa al mulino per la macinatura. I sacchi di farina scura ed ancora, le donne ad impastare, sui tavoli di marmo bianco, e le fascine a ravvivare il calore dei forni a legna.

Il miracolo di vedere trasformate acqua e farina in questa gioia per il palato risvegliava in noi ragazzi una curiosità famelica. Era difficile resistere alla voglia di azzannare una di quelle saporite pagnotte. La cura, quasi religiosa, con cui veniva conservata la pasta madre era per me fonte di altre curiosità. Come poteva un pezzo di impasto informe e di certo poco invitante, essere il protagonista della lievitazione? Eppure era
così, quell’impasto, ogni volta rinnovato, era la vera anima dell’intero processo.

Mia madre mi raccontava di come questo metodo, ma potremmo chiamarlo rito, lo stesso identico da sempre, era tramandato da sua madre, e, prima di lei, da generazioni.

Oggi, purtroppo, in pochi offrono ancora prodotti a lievitazione naturale. Già, la velocità dei tempi moderni si fa sentire anche in questo campo.

Non mi va di scrivere la frase fatidica “non esiste più il pane di una volta”, “non esistono più le mezze stagioni” ma meditiamoci un po’ sopra……

Malgrado gli apprezzamenti teorici e le celebrazioni congressuali della cosiddetta dieta mediterranea la realtà dei consumi è ben diversa e proprio il consumo di uno dei capisaldi delle nostre vecchie abitudini alimentari, il pane, è in declino.

Spesso prevale la disinformazione riguardo al contributo che il pane, apportatore di carboidrati per eccellenza, darebbe all’obesità. Appena una persona decide autonomamente di mettersi a dieta, la prima azione errata che compie è quella di ridurre l’aliquota dei carboidrati: niente più pane e pasta.

Questo comportamento è sbagliato e alla lunga anche pericoloso, perché le raccomandazioni internazionali concordano sul fatto che la “miscela alimentare nutrizionale” ottimale per l’uomo deve essere composta da una quota importante di carboidrati complessi.

E’ ovvio che l’abolizione dei carboidrati dimezzerebbe l’apporto calorico, ma lo farebbe sconvolgendo quell’equilibrio metabolico fra i nutrienti che assicura il normale funzionamento della macchina umana.

Al riguardo il professor Del Toma, in uno dei suoi libri, riportava la seguente, creativa, similitudine: “può darsi che un motorino, concepito per utilizzare una miscela olio-benzina, possa percorrere svariati chilometri anche alterando la percentuale della miscela specificata dal costruttore ma è certo che prima o poi nasceranno dei guai, ovvero GRIPPERA’ e la vita media del motore ne risulterà abbreviata.

Oggi, nel mondo occidentale , siamo (???) in un epoca di abbondanza e non certo di carenza alimentare, gli apporti nutritivi sono coperti da vari alimenti, ed al pane non compete più l’esclusiva di surrogare componenti che è possibile ottenere da altre fonti alimentari. Ma resta tuttora valido il ruolo del pane nell’ambito di quei cibi che debbono fornire quel quantum di calorie totali che competono ai carboidrati.

Sorvolo per ora sulla retorica riguardo al valore simbolico e tradizionale del pane (ne riparleremo) e concludo asserendo che, comunque, il pane resta un nutrimento importante, soprattutto quando parliamo di pane “comune”, ovvero quel pane privo di grassi e confezionato con farina non eccessivamente raffinata e sottoposto ad adeguata lievitazione. In merito riporto i risultati di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori di Saragozza, in Spagna, che hanno evidenziato che il consumo di pane industriale potrebbe alterare la composizione del microbiota intestinale, facilitando la proliferazione di batteri coinvolti in processi infiammatori e che possono avere un ruolo nella genesi dell’obesità.

Al contrario, sempre secondo quanto emerge dalla stessa ricerca, pubblicata su Journal of Functional Foods, il pane tradizionale, prodotto con pasta madre, potrebbe associarsi ad una maggiore diversità batterica del microbioma ed avere effetti positivi sia sul sistema immunitario sia sul metabolismo.

Concludendo, la tradizione e la razionalità dietetica legittimano la sopravvivenza del pane nella “diete equilibrata” e ne giustificano anche le varianti dietetiche, da quella “iposodica” (il tradizionale pane sciapo dell’Umbria e della Toscana) a quella “aproteica” per i casi di intolleranza al glutine.

Laddove, invece, si parla di pane non pane, magari definito pane “speciale”, privo di crusca e arricchito di grassi, emulsionanti e conservanti, anche un nostalgico come me può non avere grandi rimpianti per il suo declino.

C’era una volta il Pane

La prossima settimana parleremo di tipi di pane diversi e di “sostituti”.

LA PASTA

La vita è una combinazione di pasta e magia.
(Federico Fellini)

Un’origine antica

Dopo aver mescolato la semola (una farina ottenuta macinando grossolanamente il grano) con acqua e una piccola quantità di sale, eccoci subito…… con le mani in pasta.

È molto difficile stabilire quale popolo abbia inventato la pasta. Se nei primi millenni a.C. si hanno solo prove dell’esistenza del pane o delle focacce cotte su pietre roventi o in forni primordiali, quelle della pasta vanno cercate nella civiltà persiana e, soprattutto, in quella greca.

Il commediografo Aristofane, in una delle sue commedie, descrive un tipo di pasta simile agli attuali ravioli. Tracce dell’uso della pasta si hanno tra gli Etruschi e le testimonianze si moltiplicano con i Romani.

Molti autori parlano, nelle loro opere, delle lagane, strisce di pasta più o meno larghe che spesso contenevano farciture a base di verdure: le citano Orazio e poi Apicio, uno dei più antichi compilatori di ricette gastronomiche, nel 1 secolo d.C.

Una storia molto suggestiva vorrebbe la pasta inventata dai Cinesi e portata in Europa da Marco Polo nel 1295, al suo ritorno dall’impero del Gran Khan. Probabilmente anche i Cinesi facevano uso della pasta nella loro tradizione culinaria, ma è storicamente provato che questa ha origini ancora più antiche, che affondano le loro radici nella tradizione mediterranea.

Come scrive nei suoi libri il grande antropologo Marino Niola, un momento fondamentale, per noi mediterranei, è stato quello dell’incontro tra la pasta e il pomodoro. Quest’ultimo era giunto da molto lontano, dall’America, a seguito dei viaggi di Colombo. Per lungo tempo snobbato, esso non era stato subito apprezzato ed era rimasto un alimento piuttosto marginale, al punto che alcuni botanici tedeschi lo avevano etichettato addirittura come pianta tossica. Da noi veniva mangiato soltanto in insalata, condito con sale, pepe e olio, insieme ai cetrioli.

Fortunatamente, nell’Ottocento, secolo fondamentale per la nostra storia alimentare, il colpo di genio, tipico dei napoletani. E’ la svolta “matrimoniale”: la salsa di pomodoro (“a pummarola”) conferisce alla pasta un sapore ed un colore che conquistano il mondo.

Senza tema di smentita: una porzione di gr. 80 di pasta al pomodoro può essere inserita in una dieta anche ipocalorica, a patto che nel pasto non siano presenti altri alimenti ricchi di carboidrati.

Con malcelato orgoglio, difficile rintracciare un simbolo di italianità più chiaro e universale della pasta, che, però, non sempre è stata trattata come si deve.

Dagli appellativi di “macaroni” e “mangiaspaghetti” rifilati ai nostri emigrati, al comandamento futurista di Filippo Tommaso Marinetti, che propugnava, nientemeno, “l’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana”, simbolo di una tradizione “pesante” e in qualche modo immagine di una certa Italia, pigra e indolente, in altre parole, “passatista”.

Per fortuna, la consacrazione della dieta mediterranea ha fatto giustizia di tanti pregiudizi.

Senza glutine è meglio per la dieta?

Noooo! E’ sempre consigliabile, a chi non è affetto da celiachia o ipersensibilità al glutine, di seguire un’alimentazione che contempli la normale pasta di grano duro. Altrimenti il rischio sarebbe quello di trovarsi a compensare l’adeguato e necessario apporto di carboidrati complessi con un’alimentazione eccessivamente ricca di grassi, che determinerebbe un maggior apporto calorico. Ottenendo quindi esattamente l’opposto dell’effetto sperato.

Cala la pasta…..

Amletica domanda: quanto sale nella pasta? Ovvero come aggiungere la giusta dose di sale ai consigli per una sana alimentazione. Per non incorrere in errori è utile seguire la regola dell’1-100-10, che fa riferimento a 1 litro di acqua, 100 g di pasta secca e 10 g di sale (io però oggi ridurrei la quota di sale).

Naturalmente questa è una regola di massima. Occorre prendere in considerazione anche altri fattori, come, ad esempio, il tipo di pasta che deve essere cucinata, la vivacità di sapore del condimento e la sensibilità delle papille gustative delle persone alle quali il piatto è destinato.

Di norma, per salare la pasta si utilizza il sale grosso, più facilmente maneggiabile. Altra fatidica domanda: “Quando aggiungere il sale?”. Va precisato che il sale deve rimanere nella pentola il tempo sufficiente per sciogliersi e insaporire la pasta. E’ assolutamente sconsigliato aggiungerlo molto prima di scolare la pasta. Riflessione “fisica”: il sale determina un ritardo dell’ebollizione. Orbene, il momento ideale per aggiungere il sale corrisponde al tempo della bollitura dell’acqua, ovvero poco prima di “calare la pasta”, altrimenti l’acqua impiegherà più tempo a raggiungere il bollore.

Non bisogna spezzare la pasta per cuocerla ma occorre mescolarla, cercando di mantenere uniforme la bollitura. La scorsa settimana si è ribadita l’importanza della pasta al dente, per ottenere una pasta digeribile e con basso indice glicemico. Quali accorgimenti usare? È utile innanzitutto usare molta acqua. Bisogna, poi, girare la pasta ogni tanto per consentire ai granuli di amido di idratarsi senza divenire collosi. Prima che termini il tempo di cottura indicato sulla confezione è opportuno assaggiare la pasta, per capire quanto manca al raggiungimento del grado di cottura desiderato. Per tutti i palati.

Ci sarebbe ancora da scrivere su trafilatura, essiccamento, sul tipo di pasta, ma diventerebbe argomento di merceologia alimentare. Sono cauto e avrei bisogno di fare importanti distinguo anche sull’abbinamento gastronomico con il vino.

Non sta a me, inoltre, tormentarvi nel ribadire quanto olio evo a crudo mettere, quanto formaggio grattugiato (che sia parmigiano, grana, pecorino, cacioricotta….), ma eccomi a formulare una domanda pleonastica. Non trovate che lo spirito italico si risvegli davanti ad un piatto di maccheroni al sugo di pomodoro fresco, profumato col basilico (e qualche nota di peperoncino per palati audaci), con gocce di olio evo a crudo e una spolverata di formaggio stagionato grattugiato?

La prossima puntata cercherò di essere buono come il pane.

Pasta

Tutto quello che vedete lo devo agli spaghetti.
(Sophia Loren)

Spero che certi consigli dietologici, presentati insieme a ricordi piacevoli, rendano più interessante la lettura. Un tempo la preparazione dei pasti era un rito quasi più importante della loro consumazione. Era un momento di armonia familiare che sembrava accrescere il benessere per la genuinità del cibo che sarebbe giunto sulla tavola. Con il tempo mi sono persuaso che il cibo più sano e genuino, per essere apprezzato, debba armonizzarsi con una atmosfera calda e accogliente…e rigorosamente a Tv spenta.

Probabilmente questo è uno dei messaggi nascosti della dieta mediterranea.

Con le mani in pasta

Una cucina. Un tavolo. La spianatoia. Farina di grano duro, acqua, sale e le mani sapienti di mia madre. Con gesti antichi riuniva gli ingredienti, per trasformarli in quella che è considerata a ragione la regina della dieta mediterranea: la PASTA.

Il rito delle orecchiette: amabile connubio tra la sapienza delle mani e il gusto magico della pasta, nel segno della più orgogliosa tradizione italiana. Nella luce fioca della cucina, me ne stavo a cavalcioni su di una sedia con le braccia incrociate sullo schienale. Spesso mi chinavo ad osservare, quasi ipnotizzato, il ritmo delle dita che sembravano suonare una melodia che sapeva di sole, di campi di grano e del duro lavoro della terra, i cui frutti venivano trasformati dai contadini.

Mia madre sorrideva contenta del mio interesse e, avvicinando la mia sedia al tavolo, mi aiutava a tirarmi in piedi su di essa raccomandandomi attenzione nel muovermi. Certo in quella posizione andava meglio e riuscivo a vedere bene il piano delle meraviglie. Ero incantato da quei gesti fluidi e precisi e da come lei, dopo aver impastato a dovere, divideva il tutto in piccoli pezzi e, con una lieve pressione del pollice ed un delicato movimento rotatorio su ognuno di essi, trasformasse un informe pezzetto di pasta in quella calottina elegante che è l’orecchietta.

Per i “pizzarieddi”, una sorta di corto boccolo sottile, mia mamma poggiava sul piccolo pezzo di pasta un ferretto quadrangolare (poteva anche essere parte della stecca di un ombrello fuori uso) e lo faceva rotolare sulla spianatoia con il palmo della mano. La pasta si allungava, il ferretto, chiamato “frizzulu”, veniva tolto e questo “boccolo” era pronto per la cottura. È un lavoro impegnativo e i singoli pezzi di pasta vengono fatti uno ad uno.

Questa è una delle ragioni per cui, in occasione di grandi eventi o feste tradizionali, si riunivano le forze di familiari e parenti. Così, oltre ad essere un importante momento di compagnia, queste occasioni consentivano una razionale organizzazione del lavoro, in cui ciascuno eseguiva il compito assegnato, e il risultato finale, cioè la pasta pronta per essere cotta, era raggiunto con gioia e soddisfazione. Si potrebbe dire che, e non solo in questi frangenti, per un lavoro condiviso si fatica la metà e la resa è doppia.

Pasta fatta in casa

E’ facile dire pasta e soprattutto pasta fatta in casa, ma forse bisognerebbe dire “PASTE” perché non c’è regione d’Italia, dal nord al sud, che non ne abbia una sua tipica.

Al sud con la semola di grano duro, acqua e sale, un impasto più “faticoso” da lavorare; al nord, in Emilia, con le uova, sfoglie sottilissime tirate con il mattarello, arte che veniva insegnata alle bambine come gioco e che non si dimenticava più, come quando si impara ad andare in bicicletta. E ancora oggi in Romagna, in qualche festa nuziale, lo sposo deve dar prova di saper stendere una sfoglia.

Non dobbiamo dimenticare, poi, certi particolari attrezzi per fare la pasta: il torchio, per i passatelli in brodo in Emilia e in Veneto, mia patria d’adozione, il “bigolaro”, panca sulla quale ci si siede a cavalcioni per girare i “manubri” di un congegno che farà uscire i bigoli, una sorta di spaghetti abbastanza grossi e ruvidi per poter catturare bene il sugo d’anatra con cui vengono tradizionalmente serviti.

Pasta, un alimento che ci rappresenta tutti, sempre di grano duro, perché quella di grano tenero, che pure è consentita da anni in Europa, non tiene bene la cottura e per un italiano (e per fortuna, suggerisce il dietologo che è in me) la pasta scotta è un insulto, un’eresia.

Non è però un alimento completo, essendo prevalentemente composta da carboidrati ed essendo la sua quota proteica sprovvista di alcuni aminoacidi essenziali. Per bilanciarla, però, è sufficiente integrare la sua comunque discreta quota proteica con piccole porzioni di cibo di origine animale o legumi (indimenticabile, per me, la pasta e fagioli o la pasta e ceci della nonna Agata).

La semola con cui si fa la pasta, idratata, è ricca di amido e glutine e la ricchezza proteica del grano duro permette di tenere meglio la cottura. Si consiglia di cuocerla “al dente” perché così obbliga alla masticazione, fondamentale per digerire meglio e allontanare la fame, prolungando l’effetto saziante.

Inoltre, con questa cottura, il rilascio di amido avviene più lentamente e si sa che, in soggetti predisposti, i carboidrati metabolizzati troppo rapidamente, provocano contraccolpi proporzionalmente insidiosi sul fronte della glicemia.

A scanso di equivoci: la pasta non deve assolutamente essere eliminata dalla nostra tavola. La porzione ideale è di 80-100 g a crudo, anche perché la pasta, cuocendo, raddoppia il suo volume. Questo fa sì che gli stimoli della fame si avvertano più tardi rispetto ad un pasto in grado di fornire gli stessi carboidrati ma con altri nutrienti (riso, polenta, pizza, pane).

La prossima settimana riprendiamo il discorso con cenni storici e ulteriori consigli gastronomici.

CEREALI

“Dimenticare come zappare la terra
e curare il terreno significa
dimenticare se stessi.”
MAHATMA GANDHI

“Sono sicuro che se vivessi in campagna per sei mesi
diventerei un tipo così semplice,
che nessuno si accorgerebbe più di me.”
OSCAR WILDE

“La messe dei campi altrui è sempre più copiosa
e il bestiame del vicino ha la mammella più rigonfia.”
OVIDIO

Un po’ di storia.

Paleo Dieta: di cosa si nutrivano i nostri antenati?

La Paleo Dieta è stata ricostruita partendo dall’assunto che lo scatto evolutivo dell’uomo sarebbe avvenuto in concomitanza con l’introduzione della carne nell’alimentazione dell’uomo primitivo. In realtà è davvero difficile ipotizzare cosa effettivamente mangiassero gli uomini del Paleolitico.

Ci sono stati ritrovamenti che fanno ipotizzare che la dieta dei nostri antenati non fosse poi così diversa da quella di molti primati odierni (cibo reperibile in natura, ovviamente, non di produzione industriale) e che verosimilmente esistessero diverse diete primitive in base alle stagioni, alle latitudini e alle diverse disponibilità di cibo.

L’uomo del Paleolitico raccoglieva bacche e frutta, ma anche semi di grano, di orzo e di altri cereali, oppure si nutriva di legumi. Probabilmente egli si accorse che i semi, cadendo nel terreno, davano vita a delle nuove piante. Così iniziò ad osservare il ciclo di vita dei vegetali ed iniziò a non consumare più tutti i semi raccolti, ma a conservarne una certa quantità per poterli piantare e coltivare. È in questo modo che l’uomo scoprì l’agricoltura.

Non è “farina del mio sacco”, fu Charles Darwin, reduce da un lungo viaggio intorno al mondo, che affermò che le piante sono il mezzo alimentare più antico e che la carne non è mai stata l’alimento principale. Di certo, anche grazie al prezioso lavoro femminile, la semina e il raccolto hanno scandito la vita attraverso i millenni fino ai giorni nostri.

Non è mio intento auspicare che tutti diveniamo vegetariani né di prospettare scenari di un mondo senza allevamento animale. E’ innegabile, tuttavia, che i cereali oggi rappresentino, a livello mondiale, la principale fonte alimentare. Le percentuali attuali di consumo dei diversi cereali vede sul podio il frumento (44%), seguito da riso (37%) e mais (12%). Tra quelli consumati in minor quantità si annoverano l’orzo, il farro, l’avena, il sorgo, il miglio, la segale e molti altri tra cui gli pseudocereali, come la quinoa e il grano saraceno.

Caratteristica principale dei cereali è sempre la presenza di un quantitativo elevato di carboidrati (in particolare amido), un basso contenuto lipidico e un tenore proteico molto variabile, a seconda del cereale o pseudocereale preso in considerazione. Inoltre, la concentrazione di lipidi, proteine, fibre, vitamine e minerali cambia radicalmente se il cereale è integrale (composto quindi da crusca, germe ed endosperma) o totalmente raffinato, in cui l’unico elemento presente è l’endosperma. La caratteristica più importante dei cereali integrali è sicuramente la ricchezza di fibre, alla quale si aggiunge la presenza degli importanti micronutrienti.

In virtù di queste peculiarità, i cereali integrali migliorano la funzionalità dell’intestino, aiutano ad alzare le difese immunitarie, riducono il rischio di malattie cardiovascolari, abbassano l’indice glicemico, riducono i processi infiammatori e aiutano a prevenire i tumori al colon. I cereali integrali sono utili anche nel tenere sotto controllo il peso. Essi, se inseriti in una dieta equilibrata, oltre ad apportare nutrienti fondamentali, sono alimenti che riescono a dare un adeguato senso di sazietà, che, a sua volta, permette di non esagerare con il cibo.

Modalità di consumo

Pur largamente impiegati per l’alimentazione animale, i cereali sono consumati dall’uomo in diversi modi. Senza il passaggio della macinazione, i chicchi interi possono essere usati in risotti, minestre, insalate (per esempio riso, farro e orzo). Sotto forma di farine, possono essere utilizzati per la produzione di pasta, pane, crackers, biscotti e altri prodotti da forno (soprattutto farina di frumento), ma anche farro, mais e riso. Sotto forma di fiocchi, possono essere assunti come prodotti dietetici, per la colazione o per l’infanzia (avena, mais, riso). I semi possono essere usati per ricavarne l’olio (mais, riso), ma anche per la produzione di birra e di superalcolici.

Quanti cereali integrali mangiare al giorno?

Gli esperti raccomandano l’assunzione di 30 grammi di fibre al giorno e i cereali sono un valido alleato per il raggiungimento di questa quota. Per tutti i suddetti motivi l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) consiglia di aumentarne il consumo per contrastare diverse patologie tra cui l’obesità, le malattie cardiovascolari e il diabete.

Alcuni cereali come il grano, il farro, l’orzo e la segale sono anche fonte di glutine, un componente proteico che conferisce elasticità e che è particolarmente presente negli alimenti vegetali che sostituiscono le proteine animali, come, ad esempio, il seitan. In soggetti ipersensibili il glutine può, però, causare reazioni avverse come la celiachia (un’intolleranza alimentare) e la gluten sensitivity (un’ipersensibilità) e per questa ragione è necessario seguire uno specifico regime alimentare gluten-free.

Fatta questa doverosa premessa di esclusione verso chi è affetto dal morbo celiaco, grazie alle loro proprietà e caratteristiche nutrizionali, i cereali (in particolare integrali) rappresentano l’alimento alla base della piramide alimentare della Dieta Mediterranea, insieme alla frutta, alla verdura e all’olio extravergine d’oliva. Pertanto, andrebbero consumati quotidianamente ad ogni pasto. Ovviamente è sempre doveroso il richiamo al senso della misura, come già insegnava Orazio col suo“est modus in rebus”.

Se è vero che il consumo equilibrato e regolare dei cereali risulta benefico per la nostra salute, è altrettanto vero che l’abuso risulta associato all’aumento del rischio di sviluppare alcune patologie tra cui l’obesità, il diabete di tipo 2 e la sindrome metabolica. Per far sì che i cereali restino un tassello fondamentale di una dieta equilibrata è utile, come del resto per ogni alimento, suggerire di adattare la frequenza di consumo e le porzioni adeguate in funzione dei bisogni del singolo individuo.

Con i prossimi articoli proverò a smontare un po’ della cerealifobia dilagante.

Nel prossimo numero leggerete di che pasta è il blog.

CEREALI

Tre cose vuole il campo:
buon lavoratore,
buon seme
e buon tempo.”

“Una mente senza istruzione
non può dare i suoi frutti
più di quanto non possa un campo,
comunque fertile,
senza coltivazione.”
(CICERONE)

Premessa: quando ho deciso di affrontare il filone sui cereali, non era ancora in atto la guerra in Ucraina. In conseguenza di essa, diventa necessario prendere in considerazione l’aumento del costo dell’energia che influisce, a caduta, un po’ su tutto. Non sfuggono perciò a questa nuova contingenza, speculazioni di mercato a parte, gli aumenti di prezzo anche di mangimi e fertilizzanti e delle materie prime agricole.

CEREALI

Uno degli scopi di questo blog è quello di provare a infondere un po’ di curiosità in chi legge.

Il cibo ha trasformato il mondo. Esso è cultura sia quando viene consumato sia quando viene preparato e prodotto. Ed è anche un mezzo per comunicare la nostra identità. Per certi versi è una metafora della nostra civiltà. Un momento di fraterna convivialità e non solo un bisogno primario.

In tutto questo percorso evolutivo i cereali rivestono un ruolo di primaria importanza. È soprattutto grazie ai cereali che la vita dell’uomo, da nomade, è divenuta stanziale. Con la coltivazione dei cereali la popolazione umana ha avuto un notevole incremento demografico e ha visto la nascita dell’allevamento e dell’agricoltura e quindi un aumento esponenziale delle risorse alimentari.

L’uomo ha così scoperto l’importanza della stagionalità, l’alternarsi di periodi caldi e freddi, che a loro volta hanno influenzato la reperibilità delle risorse naturali del territorio. Da qui il bisogno di capire come conservare il cibo nel modo migliore, in modo da poterlo avere a disposizione per un periodo lungo, e la ricerca della selezione di specie vegetali in grado di resistere in maniera ottimale alle intemperie del clima.

Ed è cambiato, per l’uomo, anche il modo di rapportarsi alla vita, essendo divenuto possibile progettarla “a lungo termine”. Che senso avrebbe, infatti, conservare il cibo mantenendo uno stile di vita randagio? Si è trattato di un crescendo continuo: dopo aver studiato le tecniche per conservare il cibo si è giunti a sviluppare competenze finalizzate alla trasformazione vera e propria del cibo.

Ed ecco che si arriva alla produzione di latticini per preservare il latte, alla lavorazione dei cereali per creare pane e pasta, alle marmellate e confetture, a tecniche quali l’affumicatura, la salatura, ed in seguito alla refrigerazione, ovvero alla possibilità di conservare senza trasformare subito il cibo nel prodotto finale.

Grazie al progresso tecnologico, la nostra cultura del cibo si è ulteriormente evoluta. E pensare che tutto è partito da un uomo che un giorno ha deciso di provare ad usare il fuoco.

Ma quando ha avuto origine l’agricoltura?

Quando si è iniziato ad utilizzare i cereali?

Cereali nell’antico Egitto

E’ importante porre dei distinguo tra coltivazione e domesticazione. La prima si riferisce all’impianto e alla raccolta sia delle forme selvatiche sia di quelle domesticate. La domesticazione è invece il processo di selezione genetica che, attraverso il cambiamento di alcuni tratti chiave (come la scelta del “chicco” e la scelta delle piante resistenti all’allettamento) trasforma le forme selvatiche nelle varietà selezionate, ovvero domesticate.

Le popolazioni arcaiche, certamente in modo inconsapevole, hanno messo in atto una prima selezione genetica attraverso la raccolta spontanea delle spighe migliori, ovvero la scelta di spighe con una maggiore dimensione e minore difficoltà nella lavorazione. Pare che questo processo di “domesticazione” dei cereali sia avvenuto in un arco di tempo molto lungo che va dal 11.000 al 6.500 a.C.

Fin dai tempi antichi i cereali hanno costituito una base importantissima nella dieta dell’uomo. Non è dato sapere quali congiunture positive abbiano portato alla scoperta di queste preziose piante, né cosa abbia spinto i nostri antenati a iniziarne la domesticazione. Fortunata coincidenza? Frutto di un’attenta analisi della natura?

Di certo, una volta entrati nella vita degli esseri umani, i cereali hanno segnato un cambiamento decisivo nelle civiltà antiche e si può dire che, da allora, il percorso dei primi e dei secondi abbia sempre proceduto parallelamente e che duri tutt’ora. Dai centri di origine le differenti varietà si sono diffuse, grazie alle migrazioni umane, in tutto il mondo differenziandosi ed entrando a far parte di culture alimentari diverse.

La parola “cereale” è di origine latina e deriva da Cerere, divinità romana della terra e della fertilità, che avrebbe insegnato agli uomini l’arte di coltivare il frumento. Originariamente erano considerati cereali tutti i semi di piante erbacee ricchi di amido da cui si potessero produrre sfarinati. Questa definizione era basata solo sull’uso, non sulla botanica, e non faceva differenza tra Graminacee (o Poacee) e non.

Non esisteva nemmeno la distinzione, abbastanza recente, tra cereali e pseudocereali. Oggi per cereali si intendono tutte le piante erbacee della famiglia delle Graminacee che producono semi da cui si possano ricavare farine. Sono generalmente frutti secchi indeiscenti: secchi perché non hanno polpa; indeiscenti perché il frutto non si apre per far uscire il seme. In pratica si parla di un unico frutto-seme.

Nutrimento fondamentale per l’uomo e per gli animali d’allevamento, i cereali sono piante annuali che crescono, fruttificano e muoiono. Il loro successo è dovuto alla facilità di produzione e di conservazione e all’alta digeribilità. Attualmente, ricoprono circa il 50% della superficie a seminativo del pianeta e il 45% di quella italiana.

Se il metodo di coltivazione è più o meno costante, a seconda delle fasce climatiche, cambiano le specie coltivate. Per intenderci, nei paesi mediterranei è possibile coltivare anche i grani duri, mentre nel Nord Europa crescono solo frumenti teneri. Tanto per fare un esempio: l’orzo e la segale sono molto forti: riescono addirittura a sopportare il clima gelido della Siberia!

La prossima settimana completeremo la descrizione generale dei cereali