Polenta

È noto che i Romani vissero per lungo tempo non di pane ma di polenta.
Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, I sec.

Dal mio cassetto dei ricordi

Quando si dice le sorprese della vita. Nulla faceva presagire quanto di lì a poco sarebbe successo e che avrebbe portato un nuovo raggio di sole nel tran tran della mia vita. L’invito a cena, a casa di amici, era stato un gesto di gentilezza molto gratificante. “Ci vediamo questa sera!”. Così ci eravamo lasciati in tarda mattinata con Diego.

E così, puntuale come la scadenza delle tasse, alle 19.30 mi accingevo a suonare il campanello della casa di Diego ed Anna, miei amici di vecchia data. La tavola imbandita denotava il gusto della padrona di casa per le cose belle e delicate. La luce, non troppo forte, illuminava in modo caldo e rilassante la sala. Presi posto in compagnia degli altri ospiti. Dopo le presentazioni di rito e lo scambio di qualche parola per socializzare, ecco che, dalla porta della cucina, fece il suo ingresso la sorpresa.

Quella che non avrei mai pensato di incontrare stava per entrare prepotentemente nella mia vita. La guardavo avanzare lentamente, così morbida, voluttuosa, di un bel colore biondo. Avessi potuto dare sfogo alle mie pulsioni (mi riferisco a svariati lustri orsono) le sarei saltato addosso. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da lei. La vedevo lì, in bella mostra, pavoneggiarsi nella sua morbida rotondità, ben conscia di essere desiderata da tutti. Ma gli altri già la conoscevano. Io no.

Ne avevo sentito parlare. Avevo letto di lei. Me ne ero fatto anche un’idea, un’opinione, ma la realtà superava la fantasia. Ora lei era lì e lo stupore era grande. Il cuore mi batteva forte, le tempie mi pulsavano. Volevo toccarla, ma non potevo. Che figura avrei fatto? Finalmente venne in mio soccorso la mia ospite, chiedendomi: “Angelo, ne vuoi?”. Ma è?…chiesi …..“Polenta”, rispose lei prima che potessi concludere la frase.

L’approccio alla la polenta è stato per me una vera folgorazione, un colpo di fulmine che mi ha dato delle sensazioni ben diverse, immagino, da chi è stato “tirato su” a polenta e latte. L’incontro è avvenuto a casa di amici, a Vicenza, dove vivono Diego e la moglie Anna, grande signora dei fornelli. Il paiolo di rame, la “frusta” e poi il lungo mestolo di legno sono, oltre all’acqua e alla farina di mais che può essere gialla o bianca (quest’ultima dal sapore più delicato e adatta al pesce), gli oggetti indispensabili perché il rito della polenta si compia.

I tempi lunghi necessari per lasciarla “pipare”, come si dice da queste parti, e il continuo mescolare rendono l’atmosfera magica e preparano al momento fatidico nel quale la polenta viene versata, con un abile gesto, sul ‘panaro’ di legno. Ed ecco che così il sole giallo è pronto per essere servito, tagliato in fette precisissime (a volte si usa anche il filo per questa operazione).

E per mantenerla calda, qualcuno la copre con un canovaccio, in modo che eventuali bis o tris di polenta conservino la stessa gradevolezza della prima porzione. Ma se si raffredda, abbrustolita, nel camino, può essere ancora più buona. Mettere sulle fette, bollenti e compatte, il formaggio Asiago fresco o una bella fetta di soppressa esalta gli aromi e i profumi del companatico.

Anna mi spiegava che la quantità esatta di farina da usare dipenderà dalla consistenza che si vuol dare alla polenta, oltre che dalla grossezza della farina stessa. È una farina che va cucinata molto a lungo, più di un’ora. Ho ancora davanti agli occhi il gesto di Anna, quando agitava il paiolo appeso sul camino per vedere se la polenta si staccava, perché era quello il momento giusto per toglierla dal fuoco.

Notai che l’ingrediente essenziale per preparare la polenta è, a parte la farina di mais, l’olio di gomito: occorre infatti mescolare energicamente (e sempre nello stesso verso) la farina, versata a pioggia nel paiolo, quando l’acqua bolle e bisogna farlo per tutto il tempo della cottura (1 ora circa), per evitare che si formino grumi. In epoca romana le “pulsae iulianae” erano polente esclusivamente a base di farro. Il grano saraceno (ancora attuale, denominata taragna), il miglio, il frumento, e anche castagne, sono stati alla base delle farine utilizzate per cucinare la polenta.

La sua versione più famosa, diffusa in tutto il Nord Italia, resta comunque la polenta classica ottenuta dalla farina di granoturco (gialla), più grossa, granulosa, e forse più saporita, che ben si sposa con i piatti di carne e i sughi non troppo ricchi. Nel Polesine e nel Delta del Po si trova anche la polenta bianca (da farina bianca, normalmente macinata più fine) considerata più delicata ed ottima per accompagnare i piatti a base di pesce o comunque pietanze dal gusto molto delicato.

Dal punto di vista nutrizionale il mais è un cereale ricco di amido, poco proteico, con buone quantità di fitosteroli, zinco, selenio, vitamina E e vitamine del gruppo B. Tuttavia esso è poverissimo di niacina: solo 1,9 mg per etto, meno delle metà rispetto al frumento integrale che ne contiene ben 5 mg per etto.

Nel XVI secolo l’uso della polenta come alimento base della popolazione più povera portò alla diffusione della pellagra, una grave forma di avitaminosi da carenza di niacina (vitamina PP), malattia, questa, sconfitta solo verso la metà del secolo scorso.

Prodotto di buona digeribilità e facile da masticare, è gradito anche alle persone in età avanzata. Ben si adatta ad essere abbinata a pietanze condite e sugose (salsicce, carni in umido, alcuni pesci, formaggi) in modo da preparare piatti unici completi dal punto di vista nutrizionale e la cui digeribilità, ovviamente, varia in funzione degli ingredienti utilizzati.

Al giorno d’oggi la polenta è utilizzata come sostituto del pane oppure come accompagnamento per piatti a base di carne, pesce o formaggi e non ha nulla da invidiare agli altri preparati a base di cereali, come appunto il pane e la pasta, di cui ricalca abbastanza da vicino il profilo nutrizionale. Non è come si suol credere un piatto “pesante”, ma assorbe facilmente i grassi presenti nei condimenti e negli altri cibi. Chi è a dieta abbia, perciò, l’accortezza di usarla con condimenti ipocalorici, con abbondanza di verdure, ma con poco olio.

La prossima settimana si parlerà di un altro orgoglio nazionale: la pizza.

Il riso (seconda parte)

Mangia il tuo riso, al resto penserà il cielo“.
Proverbio cinese.

L’estate è alle porte. Il sole è alto e ci inonda di calore e ovviamente del colore della felicità: il giallo.

Ma anche il colore delle risate: svariati studi dimostrano che il colore giallo accresce il buon umore aumentando la produzione di serotonina.

Riallacciandomi al discorso cromatico dell’ultimo articolo, il giallo, colore intenso, diventa accecante quando appartiene a un raggio di sole che il mio occhio si sforza di mettere a fuoco. Può avere la capacità di stordirmi se proviene dalla ondeggiante chioma di un’avvenente bionda. E’ fantastico come tinta di cravatta su un completo scuro.

Ma i miei ricordi d’infanzia lo collegano sempre al grano, ai campi che si stendevano, sconfinati, dietro casa mia e ai percorsi labirintici che mi inventavo attraversandoli, o alle cadute che si potevano fare, senza farsi male, tra le spighe, dopo corse estenuanti.

Queste sensazioni le ho rivissute assaggiando la polenta, dorata e fumante, scodellata con maestria nel “panaro” . Identica sensazione ho avvertito gustando il piatto più famoso e più giallo della cucina milanese, il “risott giald”, meglio conosciuto come risotto allo zafferano.

Il verde è invece il colore che ha dominato il panorama dalla finestra della mia stanza, da dove rivolgevo lo sguardo, tra una lezione e l’altra, alla distesa di ulivi che si intravedevano a perdita d’occhio, fino all’orizzonte.

Ma con atteggiamento onirico anche oggi sgrano gli occhi e ritrovo il colore dei miei alberi, nella sfumatura primaverile, in un delicato risotto veneto condito con piselli. Risi e bisi.

Sono tali e tanti i modi di cucinare il riso che ho cercato di assaggiare la maggior parte di queste varianti. E’ rosso come il tramonto sul mare il risotto trevigiano al radicchio. E’ cupo come il riflesso del crepuscolo dopo il temporale quello all’amarone nel veronese. E’ quasi incredibile per me, cresciuto a spaghetti pomodoro e basilico, dovermi ricredere e ritrovarmi a chiedere, ogni volta che posso, che gli inviti a cena siano a base di risotto.

La gara ai colori è sempre aperta. Da quello scuro della terra, nel risotto al tartufo dei colli Berici, alla tonalità più chiara di quello alle castagne piemontesi. Ma poi, nelle regioni del nord Italia, altre sfumature date da fave, zucca, bietole e funghi. Non posso tralasciare il nero, come il dorso di cinghiale che vidi da piccolo. Nero come la profondità della laguna veneta e la rifrazione dello specchio d’onda che osservo quando sono su un vaporetto e che ritrovo in un gustoso e scurissimo piatto di riso alle seppie.

Mantecato con sapienza, sempre sorprendente, posso eleggere quest’arcobaleno di gusti tra i miei favoriti e, saltuariamente, sostituirlo alla pasta di grano duro, senza alcun senso di colpa.

Come ribadito, il riso è il secondo cereale più consumato al mondo, dopo il grano. Il suo consumo è favorito, tra le popolazioni orientali, da ragioni prettamente climatiche. Le nostre zone sono più secche e più adatte alla coltivazione del grano. Quelle orientali sono più umide e si prestano meglio alla produzione del riso. In Italia le zone tipiche di coltivazione del riso sono il Vercellese, il Novarese ed il Pavese. Tornano alla mente le immagini dei filmati con le mondine chine, nelle risaie, a raccogliere con le mani le pianticelle di riso. Oggi la raccolta è totalmente meccanizzata e quindi la figura della mondina è rimasta soltanto un ricordo del passato.

Chiarezza per acquisti consapevoli, indice di trasparenza e serietà del produttore e del distributore.

Dal febbraio 2018 l’etichetta di origine obbligatoria permette di conoscere l’origine del grano impiegato nella pasta e del riso. Per vari motivi non sarò esaustivo. Mi preme tuttavia sintetizzare che, in Italia, vengono commercializzate numerose varietà di riso. La distinzione pratica più importante è fra riso completo e riso brillato. Il primo riguarda il chicco privato del rivestimento esterno più duro (la lolla), ma ancora rivestito del pericarpo e con il germe intatto. Il riso brillato è invece completamente spogliato, privato di sostanze nutritive e lucidato o “brillato”.

Il riso integrale, più ricco di fibre, sali, vitamine, conferisce alle insalate un gusto particolare ed è più adatto per le diete dimagranti perché dà un maggiore senso di sazietà, ma ha una cottura più lunga.

Continuando nella scelta: il riso superfino ha grani grossi e affusolati che assorbono meglio condimenti e sapori e non si incollano. Meno adatti al riso in insalata, il “comune”, perfetto per minestre e dolci; il “semifino” giusto per minestre e risotti; il “fino” adatto a risotti e contorni. Il riso parboiled, più ricco di sali e vitamine, è anch’esso adattissimo alle insalate perché regge bene la cottura. Il parboiled è ottenuto lasciando il chicco immerso in acqua per 1-2 giorni e sottoponendolo poi all’azione del vapore. Questo trattamento permette di spingere i composti idrosolubili (alcune vitamine contenute nel germe e nel tegumento) verso l’interno del chicco, prima della raffinazione, mantenendo integre le caratteristiche del riso integrale, fatta eccezione per le fibre. Questo processo fa sì che lo zucchero dell’amido venga assimilato più lentamente dall’organismo, determinando un rialzo più modulato della glicemia dopo il pasto.

Riso di gusto

La massima cinese che recita:”…è meglio che un uomo aspetti il suo cibo piuttosto che sia il cibo aspettare lui ….” si addice molto bene al riso, in particolare alla preparazione del risotto, perché il riso scotto non solo perde le sue proprietà nutritive ma anche le peculiarità gustative.

Eccovi altre regole da seguire per cercare di mantenere il più possibile i principi nutritivi del riso. Bisogna evitare di lavarlo prima dell’uso e di cuocerlo in acqua abbondante perché così facendo si può arrivare a perdere anche più del 50% delle vitamine B1 e PP originariamente presenti. Meglio, poi, privilegiare le cotture a vapore (che più di ogni altra cottura rispettano tutti i principi nutritivi del riso) ed evitare l’eccesso di condimenti.

Miti e leggende

Il tradizionale lancio del riso sul corteo nuziale, nasce da un vecchio rito greco secondo il quale, per propiziare la fertilità, si facevano piovere sulla coppia dei chicchi di riso. Il gesto aveva anche lo scopo di augurare loro prosperità. In Indonesia, invece, il lancio del riso serviva a trattenere l’anima dello sposo che altrimenti, subito dopo il rito, sarebbe fuggita via senza mai fare ritorno.

Su alcuni derivati del riso, quale la bevanda vegetale a base di riso, l’amido di riso, l’aceto di riso e l’olio di riso, torneremo più avanti.

Il prossimo venerdì parleremo di polenta.

Il riso

Proverbi giapponesi:

Mangia il tuo riso, al resto penserà il cielo.
Parlare non fa cuocere il riso.
Anche la migliore delle massaie non può,
se non ha del riso, preparare il suo pasto.

In Cina si dice:

Senza fatica non si mangia neppure un granellino di riso.
Il riso conserva sempre l’odore della terra in cui è maturato.

Se fai piani per un anno, semina riso.
Se fai piani per dieci anni, semina un albero.
Se fai piani per una vita, educa le persone.

India:

“Nel riso è sostanza e letizia”
lo affermano i Veda,
sacri testi indiani risalenti
al 2°-1° millennio a. C.

Il riso è la cariosside (un frutto-seme) della Oryza sativa, pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle Graminacee. Originario dell’Asia sud-orientale, coltivato fin dall’antichità, è oggi il cereale più diffuso nell’agricoltura mondiale, dopo il frumento.

A chi, come me, proviene dal “granaio” d’Italia, la Puglia , ha sempre fatto un certo effetto viaggiare in lungo e largo per il Nord e non riuscire a trovare, con la stessa facilità, il giallo intenso che caratterizza i campi di grano che sono il ricordo della mia infanzia.

Per qualche strana legge di compensazione, però, o forse per una mio ingenuo bisogno di ritrovare sempre, in qualsiasi cosa, “un volto familiare”, quel giallo dei ”miei” campi, il cui ricordo ho perso vivendo al Nord, l’ho ritrovato nelle tavole imbandite di tanti amici veneti, lombardi e non solo. È la polenta fumante, scodellata con incredibile maestria nel veneto “panaro” di cui parleremo più in là.

Ma è anche un incontro meraviglioso che ho fatto, un giorno, in casa di amici milanesi “doc”, quando mi hanno fatto conoscere uno dei piatti a mio avviso più affascinanti della loro cucina: il risotto con lo zafferano. “Assaggia, Angelo”, mi dissero, “noi lo chiamiamo risott giald”.

Ho scoperto solo in quel momento (i miei studi di scienza dell’alimentazione erano ancora di là da venire) che questo era ed è uno dei piatti tipici della cucina lombarda e, più specificamente, milanese.

Ricordo che mi chiesi cosa potesse entrarci una spezia particolare come lo zafferano, proveniente da un fiore colorato come il croco, con una terra così spesso immersa nel freddo e nelle brume. Solo più tardi ho conosciuto i veri colori di una regione davvero incantevole come la Lombardia.

Nel frattempo, però, quella sera, mi lasciai conquistare da questo squisito risotto, che mi aprì, letteralmente, un mondo.

Da amante della pasta di grano duro, pomodoro e basilico, mi sono ritrovato cultore anche del risotto, che poi ho voluto assaggiare nelle innumerevoli varianti che la cucina del Nord sa offrire. Mi ritrovavo, molto spesso, a chiedere con gentilezza, ma non senza una certa determinazione, che gli inviti a cena fossero a base di risotto, sperimentando a tavola come questo cereale si abbinasse a un numero illimitato di ingredienti.

Un amico vicentino mi ha fatto conoscere il risotto con il tartufo dei Berici e un amico trevigiano il risotto con il radicchio e poi via via, in quella che è divenuta una piccola gara tra regioni. Il risotto con la zucca di un amico emiliano, il risotto con le fave di un altro dalla Lombardia, il risotto alle castagne di un amico piemontese (ma anche quello con le bietole); il risotto di seppie di un altro, veneziano, e poi al curry, allo scampetto…

La notevole versatilità di impiego in cucina sposa armoniosamente il riso a carne, pesce, uova, formaggi, frutta, verdura così come ai condimenti più variegati, sughi e salse, che gli si attagliano perfettamente, tanto che, per me, il riso, è divenuto senza dubbio il secondo tra “i primi”.

Col tempo ho imparato ad apprezzarne anche le doti più propriamente organolettiche e nutrizionali.

Buona fonte di energia (circa 350 Kcal per etto), il riso apporta all’organismo il combustibile principe, l’amido, a “lento rilascio”. Questo, oltre a protrarre la sensazione di sazietà, (al contrario di carne e pesce e alla stregua di pasta e legumi, incamera acqua durante la cottura, fino a pesare più del doppio che a crudo) fa sì che il contenuto di zucchero nel sangue (glicemia) salga lentamente, con ripercussioni positive soprattutto per i pazienti diabetici.

Un confronto tra “primi”.

La pasta ed il riso sono entrambi fonti generose di amidi e come tali alternativi. Possono essere utilizzati quasi indifferentemente nella preparazione di ottimi primi piatti.

Differenze: l’amido della pasta impiega più tempo a trasformarsi in zucchero semplice, e, per questo, scongiura in modo più efficace i “picchi” glicemici. Ciò rende la pasta più indicata per i diabetici. Questa diversità spiega il perché della maggiore digeribilità del riso, non a caso alimento di elezione per convalescenti e neonati, oltreché per chi soffre di dispepsie o più semplicemente si sta riprendendo da un’indigestione.

Le proteine di entrambi i cibi non sono nobili come quelle di origine animale: per “completare” dal punto di vista nutrizionale un piatto di riso o pasta i vegetariani dovranno ricorrere a qualche cucchiaio di legumi. Ai non vegetariani potrà bastare un ragù. Il riso come già scritto è privo di quegli aminoacidi che nella pasta favoriscono, lievitando, la formazione di gliadina, sostanza che ne impedisce il consumo ai malati di celiachia. Poiché le proteine del riso non contengono glutine, il riso è proponibile anche per chi soffre di celiachia.

Il contributo calorico dei due alimenti allo stato puro è sovrapponibile. Tuttavia, il riso, se cotto nel brodo e poi condito (risotto), raccoglie inesorabilmente più grassi della pasta, che si bolle soltanto. Di fatto, un risotto apporterà più calorie e conterrà più grassi di una pasta al pomodoro o al ragù.

Il discorso ovviamente non vale per il riso bollito.

Il prossimo venerdì completeremo l’argomento “riso”.

Pane

La vita è come il pane:
col trascorrere del tempo diventa più dura,
ma, quanto meno ne resta,
tanto più la si apprezza.
(Indro Montanelli)

Memoria delle civiltà più antiche, abbraccia e racconta la millenaria storia dell’umanità, accomunando, nella sua fragranza, le diversità dei tanti popoli che hanno realizzato lo sviluppo del genere umano.

Il pane, dunque, come bandiera. Anzi, al di sopra di qualsiasi bandiera. Perché se è pur vero che le bandiere sintetizzano in un’unica combinazione di colori e di simboli l’anima di una nazione, il pane fa molto di più: cambia la propria forma, il proprio colore, il proprio sapore, la propria consistenza di regione in regione, di città in città.

E’ il simbolo dei tanti luoghi che fanno un Paese, demarca le tradizioni, la storia, i valori. Traccia i confini delle diversità per poi unirli, in un unico grande caleidoscopio del gusto.

E’ risaputo che, se si vuole veramente conoscere un popolo, non ci si può fermare al vessillo che sventola sulle navi o nei palazzi delle istituzioni, ma ci si deve sedere a tavola e spezzare il pane in un gesto di comunione, che, non a caso, è diventato il simbolo di una religione.

Onnipresente sulle tavole, si accompagna sobriamente ma senza remore reverenziali a tutte le pietanze.

Di mille forme e mille sapori, riesce a caratterizzare l’inventiva dell’artigiano e gli aspetti tradizionali del luogo di produzione. Biondo, morbido, croccante, lungo o filoncino, piccolo o panino e poi soffiata, zoccoletto, mantovano, tartaruga, ciabatta, di Altamura, al sesamo, alle olive, e di altre mille forme e sapori, è il Diabolik dell’alimentazione capace, con I suoi innumerevoli volti, di presentarsi sempre con un’immagine nuova e al tempo stesso consolidata.

Pane, grissini o cracker? E ancora, meglio il toscano-umbro o i formati più piccoli? E poi, bianco o integrale? E i panini all’olio? I tipi a grande pezzatura, quelli della tradizione, sono da preferire. Certo, nulla vieta di passare, di tanto in tanto, ai panini all’olio e, perché no, alla pizza bianca o alla focaccia. Il pane “alla toscana” prodotto dalle farine di migliore qualità, è quello capace di dare il più elevato contributo di carboidrati (e si tratta quasi esclusivamente di amidi, e in minima percentuale di zuccheri semplici) limitando al minimo l’introito di grassi e, non ultimo, di sodio.

Già il passaggio a formati più fantasiosi e “difficili” da produrre, come la pur classica rosetta, comporta un introito lipidico quadruplo. Come già altrove ribadito, i carboidrati complessi sono propri della migliore qualità di cereali. Privarsene è un grande errore.

In grissini, cracker e simili, i lipidi aumentano esponenzialmente e, anche applicando certe equivalenze care agli integralisti delle diete dimagranti, tipo “30 grammi di cracker al posto di un etto di pane”, si va in perdita.

È vero che le calorie calano (da 280 a 130 circa) ma i grassi in entrata si moltiplicano di 6-7 volte. Inoltre, la capacità di sfamare, tipica del pane, è ben altra cosa rispetto a quella di cracker, grissini e simili, che, nella meno improbabile delle ipotesi, si trasformano in pericolosi “stuzzichini”.

L’aura di alimento dietetico rivestito dai “sostituti” del pane è immeritata. Si può pensare che cracker, grissini e fette biscottate facciano dimagrire solo se si compara, un po’ superficialmente, la “monodose” con la porzione usuale di pane di chi non è abituato a controllarsi.

Insomma, se il giorno che decido “da oggi mi metto a dieta”, riduco i miei usuali 120-150 g di pane a pasto al pacchettino da 30 g di cracker, e lì mi fermo, il trucco funziona. Altrimenti, cracker e altri sostituti del pane sono un’arma a doppio taglio. Rispetto all’alimento base, questi sono innanzitutto arricchiti di grassi. Inoltre, sono ricchi di sodio (anche quelli senza “sale in superficie”) in misura tale da scoraggiarne un uso frequente, considerando che la nostra razione alimentare è già troppo “salata” rispetto alle necessità dell’organismo.

In conclusione, essendo molto secchi e relativamente grassi, i cracker garantiscono un apporto calorico elevato in assoluto: 420-440 calorie per etto, contro le 300 del pane, ma tutt’altro che trascurabile, anche considerando la monoporzione. In merito al pane, oltre al grande beneficio per il palato, non è il caso di sottovalutare il volume, parametro importante per accontentare lo stomaco, ovvero generare un senso di sazietà.

PANE AZZIMO

La scoperta del fuoco, uno degli eventi più importanti e suggestivi nella storia dell’uomo. In ambito mitologico, Prometeo ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini. Con la scoperta del fuoco, l’uomo primitivo imparò a tostare i chicchi, rendendoli più gustosi e digeribili. In seguito, si accorse che sfregando tra due pietre i chicchi arrostiti di farro per liberarli dalla pellicola non commestibile che li riveste (glume), si produce una farina grossolana che può essere mescolata ad acqua per farne una pappa. Fu del tutto casuale scoprire che l’impasto di cereali e acqua, lasciato su una pietra rovente, si asciugava in una crosta appetitosa, una focaccia molto bassa, non lievitata, ovvero il primo pane.

Il pane, dunque, nasce azzimo, vale a dire senza enzimi, non lievitato. Sono molti i paesi che hanno tuttora il proprio pane non lievitato. Essendo a rigore senza lievito, per la legislazione italiana non dovrebbe essere considerato pane. Si va dall’italianissima piadina, crescentina o tigella, al chapat, pane tipico indiano (galletta di frumento integrale) il cui impasto è steso in dischi sottili e cotto su piastre a diretto contatto con il fuoco. Ci sono poi le “cachapas” venezuelane che presentano un impasto molto morbido e che sono simili alle crepes; si ottengono mescolando farina di mais con acqua e un po’ di sale. Ci sono poi le “tortillas” messicane, preparate anche con altri cereali e impastate con meno acqua per essere più croccanti.

Il pane azzimo è il pane della memoria, alimento Kashèr, corrispondente a precisi requisiti di conformità alla prescrizione biblica e, nell’immaginario collettivo, strettamente legato al popolo ebraico.

Azymos, privo di lievito, che in ebraico diventa “mazzah”, è il pane della purezza, preparato unicamente con farina di frumento e acqua, senza lievito e sale, considerati ingredienti impuri che avrebbero intaccato l’integrità del cibo da offrire al Signore: “Nessuna offerta di cereali in sacrificio a Jehova dovrà essere preparata con lievito” (Levitico 2, 11).

La digeribilità dopo la cottura dell’impasto è condizionata dalla quantità di acqua residua. Di solito il pane azzimo ha una cottura prolungata, utilizzata su forme molto sottili che consentono la cottura anche nella parte interna. Questo richiede una prolungata masticazione consentendo agli enzimi contenuti nella saliva di iniziare la digestione dell’amido già nella cavità orale.

La prossima settimana parleremo di riso.