Che pizza

La pizza nel forno a legna la guardi mentre cuoce,
la vedi, la muovi, controlli la cottura

e la guardi mentre cresce, la accompagni…
se la metti in un forno elettrico la chiudi li dentro,
come se fosse morta.

Un pizzaiolo napoletano

Dal cassetto dei ricordi

La coda sembrava ancor più interminabile a causa delle intemperanze dello stomaco. La mano di mio padre era il porto sicuro per il mio animo di bambino che si sarebbe perso tra la folla di avventori.

La mozzarella friggeva sul letto di passata di pomodoro, nel forno alimentato a legna dal pizzaiolo panciuto in maglietta bianca con il grembiule “decorato” da impronte rosse. Sul piano di marmo, una spruzzata di farina serviva a facilitare la lavorazione, in forma di dischi di pasta schiacciata ancora da condire, dei pani lievitati.

Sotto il piano, i pani attendevano il loro turno, allineati in lunghe casse di legno. Il calore che si sprigionava dal forno era quasi un conforto nei mesi invernali, quando fuori il freddo era pungente, ma era anche un vero supplizio nelle calde sere d’agosto quando era meglio aspettare all’esterno il proprio turno.

Ma, comunque, alla fine, l’attesa veniva sempre premiata. Avvolte in un foglio di carta da pane, separate tra loro da sottili strisce di canna di bambù, fumanti e bollenti, le ricevevamo con la grazia e la trepidazione con cui si sostiene un bambino in fasce. Poi subito alla cassa per pagare e di corsa a casa per il momento tanto atteso.

Anche oggi, ogni tanto, ad occhi chiusi, immagino di camminare in un luogo in meridione , di “fare le vasche” come si suol dire in gergo. Brusio di fondo, voci che si levano su altre, colori e sonorità.

Pizza come senso della frugalità della vita.

Di per sé la pizza rappresentava un concetto ben preciso: soddisfare chi non aveva il tempo di fermarsi, una specie di fast food ante litteram, ma di tipo mediterraneo, con il senso, quindi, che si attribuisce alle pause nel meridione del nostro Paese e perciò non certo solo per fare uno stacco di 15 minuti. Pizza in una giornata di sole con il mare azzurro. Una specie di walking food, un cibo peripatetico. Senti in bocca ciò che vedi, ti fermi gustandola con calma, è un oziare ma non un perder tempo.

Pizza Margherita, non capricciosa, o diavola e non in pizzeria.

Cammini per il corso con la pizza piegata in 4, avvolta in un foglio color ambra… Parli di calcio, litighi con la ragazza, cammini, mangi, rifletti, ridi. Con aria trasognata assaporavo tutto, strada facendo. A volte, rientrando la sera a casa, mi chiedevo quale fosse il valore della giornata appena passata, se non fosse stato meglio rientrare prima a casa e dormire un po’ di più. La risposta me l’aveva già fornita l’ultimo morso di quella pizza così saporita e mangiata con così tanto gusto …………ciao Margherita, non ti dimenticherò mai.

Alta, alla napoletana, o bassa, alla romana. Semplicissima, con pomodoro e origano, o ricca di ingredienti, dall’uovo al prosciutto, alle verdure, ai frutti di mare. Cotta nel classico forno a legna o surgelata e riscaldata nel microonde. A taglio o tonda, da asporto o da consumare in vecchi locali storici con le tovaglie di carta.

Italiana per antonomasia

Tanto da conservare il proprio nome in tutto il mondo. Dall’America al Giappone, c’è un solo modo di pronunciarla: PIZZA. Nata come cibo povero, realizzabile con pochi essenziali ingredienti, oggi la pizza presenta tante e tali varianti da rappresentare un pasto completo e perfettamente equilibrato. La vera ambasciatrice di pace dell’Italia nel mondo ha una storia antica. Parte dalle focacce di farro in epoca pre-cristiana, ha attraversato epoche e continenti, ha resistito a guerre di gourmet e invasioni di cucine etniche, e ormai ha conquistato, pacificamente, tutto il mondo.

La pizza patrimonio dell’Umanità.

Per l’Unesco, “il know-how” culinario legato alla produzione della pizza, che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, di esibirsi e condividere tutto questo è un indiscutibile patrimonio culturale.

I pizzaioli e i loro ospiti si impegnano in un rito sociale nel quale il bancone e il forno fungono da “palcoscenico”, durante il processo di produzione della pizza. È tutto questo accade in un’atmosfera conviviale che comporta scambi costanti con gli ospiti.

L’arte della pizza.

Fare la pizza, sostengono a Napoli, è una vera e propria arte, raffinatasi attraverso l’esperienza di tante generazioni. Una pizza fatta a dovere deve essere composta dal fondo, dal condimento e dal bordo che, secondo molti, è la parte più buona. L’autentica pizza napoletana va realizzata con un impasto a base di farina di frumento, acqua e lievito, a cui si aggiungono pomodori San Marzano, mozzarella di bufala, olio extravergine di oliva e sale marino.

La mozzarella va tagliata in piccoli pezzi e non deve essere un informe ammasso sottile e bucherellato. Il pomodoro deve avere una consistenza morbida, non troppo denso e asciutto e deve colare dalla pizza tagliata. Il profumo di basilico deve essere ben percepibile.

La consistenza della Pizza di qualità dovrebbe essere morbida ed elastica e la pizza dovrebbe essere facilmente piegabile. Il prodotto si presenta morbido al taglio e dal sapore caratteristico, sapido, derivante dal bordo, che presenta il tipico gusto del pane ben lievitato e cotto, mescolato al sapore acidulo del pomodoro e all’aroma, rispettivamente, dell’origano, dell’aglio o del basilico e al sapore della mozzarella cotta.

Cottura

La pizza deve avere una forma circolare, con bordo regolare, non rigonfio né bruciato e la parte centrale deve risultare morbida. La cottura va effettuata in un forno refrattario alimentato a legna (preferibilmente di quercia e ulivo), a una temperatura compresa fra i 420 e i 480°C. La pizza, alla fine del processo di cottura, emanerà un odore caratteristico, profumato e fragrante.

Il bordo è per me fondamentale: bello a vedersi, netto nel profumo della pasta cresciuta e della legna usata, morbido e delicato al morso. È’ stato paragonato all’atrio di una grande dimora: tutto è preannunciato, pur non mostrando nulla pienamente.

Purtroppo nella produzione di alcune pizze si rispettano poco queste regole. Può accadere che siano stati utilizzati il formaggio fuso e pomodori di non eccelsa di qualità.

Informazioni fuorvianti: le calorie della pizza.

Come già ribadito, la composizione nutritiva della pizza varia notevolmente a seconda degli ingredienti utilizzati e delle dimensioni. Quella tradizionale dovrebbe pesare, appena sfornata, poco più di due etti. In virtù di certi ancestrali ricordi, ritengo che le pizze speciali con aggiunta di wurstel, salsicce, uova, banane snaturino completamente il piatto italiano nato dalla tradizione alimentare più povera e semplice.

Se farcita con formaggi sintetici, banane, uova fritte non è più una pizza, è uno scempio. Spesso dopo aver mangiato una pizza si digerisce con una certa difficoltà o viene una forte sete. La causa di questi fastidì è in una “maturazione” insufficiente, oppure nella scarsa qualità degli ingredienti (soprattutto la farina).

Un altro elemento da considerare è l’aggiunta di miglioranti alla farina, cosa questa che permette di velocizzare la lievitazione e di accorciare i tempi di lavorazione, penalizzando però la qualità dell’impasto, con pessime ripercussioni sul gusto.

Anche la presenza di un eccesso di enzimi è negativa perché la pizza può risultare indigesta, stimolando la sete. Se la maturazione e la cottura vengono effettuate a regola d’arte, la pizza sarà più digeribile e sicuramente più saporita. L’ultimo elemento che può scatenare la sete è l’eccessiva quantità di sale usata per correggere i difetti di una scarsa maturazione, ma questo difetto si “sente” subito al palato.

La mozzarella non ha una correlazione con la sete ma gioca comunque un ruolo fondamentale nella pizza. Molte pizzerie la sostituiscono con i cosiddetti “siluri” ovvero panetti a forma di cilindro ottenuti da formaggio fuso. L’aspetto più conveniente della scelta di questo formaggio è il suo costo che, rispetto alla vera mozzarella, è dimezzato e, da un punto di vista operativo, permette di accorciare anche i tempi di lavorazione (perché non va fatta scolare). L’esito sul piano qualitativo e organolettico è, tuttavia, deludente.

Concludo sottolineando, ancora una volta, l’importanza particolare della lievitazione (più è lunga, meglio è) e della qualità delle materie prime usate.

Orbene: gustiamola con pochi condimenti (non salati) tipici della tradizione italiana e che esaltino il sapore della farina di grano di cui è fatta.

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