Cibo e simbologia

I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati,
l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca.
(Epicuro)

Allora egli prese i cinque pani e i due pesci e,
levati gli occhi al cielo, li benedisse,
li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono e si saziarono
e delle parti loro avanzate furono portate via dodici ceste.
Luca 9:16-17

Io sono il pane della vita;
chi viene a me non avrà più fame
e chi crede in me non avrà più sete.
(Gesù di Nazareth, Vangelo secondo Giovanni)

Grazie alle interessanti letture dei libri del giornalista antropologo Marino Niola ho approfondito, non solo dal punto di vista del dietologo, l’argomento “cibo”, che, a ben guardare, si riveste di innumerevoli significati simbolici. Esso è infatti intriso di valenze storiche, antropologiche, psicologiche, sociologiche, economiche, ecologiche, tecnologiche.

Nel passato gli uomini erano ben consapevoli della loro dipendenza dalla Grande Madre, la Dea Natura, al punto da celebrare riti propiziatori per invocarne la benevolenza, per ringraziarla dei suoi doni e restituirle, sotto svariate forme simboliche, i frutti raccolti.

Essi rispettavano ogni essere vivente perché sentivano di essere una parte di quel Tutto. Venivano più facilmente accettati i cicli della vita, le stagioni e i fenomeni naturali, la vita e la morte. Ci si inchinava al mistero e in esso si riconosceva la metafora dell’esistenza su questa Terra e la speranza di rinascita dopo la morte.

Ma anche ai nostri giorni, e perfino nei nostri disillusi paesi occidentali, sopravvivono miti e riti di un passato ancestrale nel quale il significato materiale si fonde con quello simbolico. Gli antichi ritenevano sacro ed evocativo ogni alimento. Ma anche noi, oggi, siamo consapevoli che la qualità intrinseca di ogni cibo è, prima di tutto, vitalità che influisce sulla nostra energia.

Cibi semplici, non trasformati chimicamente o industrialmente, provenienti dal nostro territorio, sono importanti per la nostra salute perché diventano più facilmente parte di noi stessi.

Proprio perché esso rende meglio l’idea della paziente attesa, pensiamo al suggestivo processo che trasforma un seme in pane, alla sua importanza culturale presso tutti i popoli fino dai tempi più antichi, al suo significato di alimento che permette all’uomo di superare lo stato “selvatico”, di approdare allo stadio della cerealicoltura in un mondo, quello mediterraneo, che poneva questa attività sotto la protezione di Demetra, Cerere, e delle Dee Madri analoghe, fino all’ostia consacrata in cui Dio Stesso diventa carne nella carne dell’uomo.

Ogni seme è un miracolo della Natura, un miracolo di potenza, pur così piccolo e, a volte, secco. Con rigogliosa vitalità esso ha la forza di trasformarsi in qualcosa di completamente diverso, grande e vivo.

Così, l’atto del mangiare assume il significato rituale dell’assimilazione di energia dalla pianta o dall’animale. Il vino stesso acquisisce una dimensione quasi ultraterrena. Basti pensare ai riti in onore di Dioniso per i greci, Bacco per i romani, ma anche al significato del bere il Sangue di Cristo per i cristiani.

Il pesce, simbolo della pesca delle anime, è anche l’acronimo ICHTHYS delle parole greche “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore” segno segreto grazie al quale i primi cristiani perseguitati si riconoscevano tra loro per distinguersi dai pagani.

Il termine ichthys (nella grafia greca del tempo ΙΧΘΥΣ è la translitterazione in caratteri latini della parola in in greco antico: ἰχθύς, ichthýs («pesce»)

Gesù non ha inteso darci una lezione sull’indice glicemico o sugli omega 3 ma con cinque pani d’orzo e due piccoli pesci, ovviamente moltiplicandoli con un miracolo, sfamò una moltitudine di persone.

La mela, nasce come frutto proibito per Adamo ed Eva, ma trova poi riscatto come emblema di Venere e delle Tre Grazie e diventa, nelle mani del Bambino Gesù, il simbolo della sua missione di Redentore dai peccati.

Ab ovo, locuzione latina che ne indica le lontane origini: l’uovo compare nei miti dell’origine del mondo di molti popoli ed è considerato simbolo di forza germinativa, di energia vitale, di nascita e di rinascita, di una totalità chiusa nella perfezione del suo guscio. Nel cristianesimo è, inoltre, simbolo di Resurrezione.

L’acqua, simbolo ambivalente perché sorgente di vita, ma anche causa di morte e distruzione, opposta al fuoco come elemento primordiale. Risulta ancora elemento duale anche nell’unione di acqua e vino, metafora della doppia natura umana e divina di Cristo; in tante religioni infatti simboleggia la fecondazione e la purificazione, come accade, per la nostra religione, nel Battesimo.

Regalo di Atena agli uomini, l’olivo è, per i popoli mediterranei, simbolo di pace per antonomasia; esso placa, purifica e nutre, ma serve anche per le cerimonie sacre di unzione dei re e dei sacerdoti, così come accade nel cristianesimo con i tre oli benedetti – crisma, catecumeni e infermi – l’ olio serve per consacrare e medicare.

Il cibo ha avuto da sempre anche un significato etico, il valore di buono e cattivo, di bene e di male. Oggi molti di noi si credono evoluti rispetto ad altri popoli perché consumiamo cibi diversi: in realtà le etnie cosiddette primitive, usufruivano, e tuttora usufruiscono, dell’offerta della Natura al loro territorio (c’è chi mangia insetti, cani, serpenti, rettili.).

Pensiamo alla complessità delle norme che regolano l’assunzione di certi cibi in alcuni popoli, ebrei e islamici, indù e buddisti, ai seguaci della macrobiotica e ai vegetariani: il cibo in questi casi costituisce un ideale di purificazione e difesa contro qualcosa che proviene dall’esterno e che può contaminare il corpo e lo spirito.

Il digiuno invece è sempre stato considerato come veicolo di ascesi verso una dimensione spirituale, staccata dai bisogni materiali del corpo.

Concludo riportando alcune riflessioni in merito al cibo e alla sua essenza spirituale, da parte del Priore di Bose, Enzo Bianchi, autodefinitosi credente eco-spirituale.

Egli afferma: “Non è possibile vita spirituale senza consapevolezza del cibo, senza attenzione al cibo, senza che si accenda l’arte del mangiare, senza che il pasto sia un rito creatore di senso, senza un’esperienza di condivisione e di comunione intorno alla tavola. È significativo che nell’ebraismo l’incontro con Dio avvenga mediante un pasto”.

E a proposito del pasto monastico: “Ciò che è tipico del pasto monastico è il regime della parola. In primo luogo si sta in silenzio, almeno un pasto ogni giorno, a volte ascoltando letture religiose, in particolare dei padri della chiesa.

Mangiare in silenzio non è negazione della commensalità, ma esercizio di consapevolezza del cibo che si mangia, del perché e del come si mangia . È esercizio per conoscere e misurare l’aggressività che abita in ogni persona e che, nell’atto dell’assumere cibo, facilmente emerge e si manifesta.

Il pasto, ovvero il momento nel quale si assume cibo per vivere, attraverso le vivande, ma anche il contesto in cui si assume il cibo necessario alla vita spirituale”.

Infine, sull’arte culinaria: “Avrei molto da dire sull’arte culinaria, anche perché la cosa che so fare meglio è la cucina, ma altri sono i luoghi per soffermarsi su questo tema. Quello che qui mi interessa far emergere maggiormente è come questo “fare da mangiare”, come la cultura del cibo sia il modo di parlare e di comunicare all’altro i propri sentimenti.

Chi prepara il cibo, infatti, se è vero che obbedisce a tradizioni culinarie ereditate dalla famiglia o apprese dai ricettari, oggi troppo abbondanti e fantasiosi!, è vero anche che pensa a chi quel cibo lo riceverà, alla persona a cui verrà offerto .

Così come si preoccuperà che quel cibo piaccia a quella specifica persona, che sia compatibile con i suoi gusti e i suoi bisogni alimentari, e possa essergli gradito o meno. Conta anche in quale misura, inoltre, verrà offerto, perché anche la misura del mangiare va considerata con attenzione.

Non a caso, i capitoli della regola di san Benedetto riguardanti i pasti (RB 39 e 40) hanno per titolo “De mensura cibus” e “De mensura potus”.


La prossima settimana cercherò di dire …“pane al pane” iniziando a parlare di cereali.

CIBO EVOCATIVO

Noi uomini non ci nutriamo l’un l’altro
semplicemente per mangiare e bere,
ma per mangiare e bere insieme”
(Plutarco, Dispute conviviali)

Detesto l’uomo che inghiotte il cibo
senza sapere che cosa mangia.
Dubito del suo gusto in cose più importanti”
(C. Lamb)

Tutte le specie animali, e non solo gli uomini, sin dall’antichità, si sono rapportate alla natura guidate dal “principio di sopravvivenza”. Non vi era alternativa: “Mangiare o essere mangiati”. Questa necessità di mangiare e al contempo di cercare di non essere mangiati, indusse i nostri antenati a elaborare, più o meno consciamente, interventi sempre più articolati sulla Natura.

La nostra è l’unica specie animale a trasformare il nutrimento, che la Natura fornisce allo stato grezzo, attraverso processi chimici e fisici ma anche tecnici e culturali. La mitologia greca ci narra che dopo che Prometeo rubò il fuoco agli dei, ci fu il processo di trasformazione dei cibi con la cottura.

Ciò permise all’umanità di elevarsi da uno stato animale, in cui mangiava cibo crudo, alla civiltà, perché poteva cuocerlo e di evolversi, per dirla alla Levi-Strauss, dalla natura alla cultura. L’uomo passò così dalla raccolta di frutti, radici, tuberi e semi selvatici, tipica delle popolazioni dei pastori nomadi, alla selezione di piante che si prestavano alla coltivazione.

Da tempo immemorabile il cibo non identifica soltanto un bisogno primario legato alla pura sopravvivenza del corpo, ma si riveste di connessioni e significati che fanno da ponte tra psiche e corpo, tra spirituale e materiale.

Argomentare di cibo in modo diffuso è di certo avvincente.

Chi non conosce l’aforisma di L. Feuerbach, 1862: “L’uomo è ciò che mangia”? Ma è anche vero, per citare M. Montanari, che “L’uomo è ciò che mangia, ma l’uomo mangia ciò che è, ossia alimenti che siano specchio della sua cultura”.

Ah, se solo facessimo un minimo di attenzione: quando mangiamo, indipendentemente da ciò che mettiamo nel piatto, non introduciamo nel nostro corpo solo calorie, proteine, carboidrati, lipidi, vitamine, minerali.

Dentro c’è molto di più

Dentro il nostro cibo c’è molto di più: significati simbolici, emozioni e relazioni che viaggiano nascoste ad un certo personale livello di coscienza.

Il nutrimento è sicuramente uno dei nostri primi linguaggi non verbali e rappresenta una necessità vitale; il latte materno (che idealmente appaga e gratifica, porta piacere e rilassa) soddisfa i bisogni di sopravvivenza del corpo ma, nel contempo, ci consente di entrare in relazione con le emozioni trasmesse dalla madre che spaziano dall’affetto alla sicurezza, dalla comprensione o dalla stanchezza all’ansia e al nervosismo.

Anche oggi, non più lattanti, ciò che mangiamo ci riporta alla prima relazione affettiva importante e ci rimanda, simbolicamente, alla qualità di quell’amore. Ecco perché il modo in cui il cibo viene pensato, il tipo di ingredienti utilizzati, l’attenzione e il tempo impiegato nel cucinare, l’intenzione presente nel momento in cui lo si mette nel piatto fanno la differenza e diventano, essi stessi, qualità, “sapore” e nutrimento che si aggiunge ai nutrienti “tradizionalmente” intesi.

Il cibo è, in ultima analisi, famiglia, amicizia, ritualità, emozioni condivise e altro ancora e, non ultimo, cultura. Ecco perché tendiamo ad aumentare la quantità di cibo giornaliera quando abbiamo bisogno di conforto.

E, sia pur inconsapevolmente, scegliamo cosa mangiare in modo compensatorio non solo rincorrendo la soddisfazione del palato ma accordando un significato simbolico al singolo alimento e al conseguente inconscio piacere che ci arreca.

Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei

E allora siamo a caccia di cibi morbidi, quando auspichiamo una dimensione di integrazione affettiva; di cibi duri, croccanti, quando vogliamo tendere alla grinta, alla resilienza. Sembra, inoltre, che gli alimenti dolci siano consolatori e soddisfino un bisogno di accudimento e che i cibi salati, invece, rinforzino un comportamento volitivo, indipendente.

A loro volta le carni evocano un elemento di forza e aggressività mentre quelli vegetali suggeriscono una dimensione relazionale armonica, preludio di leggerezza. La scelta di piatti semplici rivela un bisogno di chiarezza, linearità. Le pietanze elaborate, invece, possono indicare un bisogno di integrazione di aspetti diversi e complessi. Il latte e i latticini ci richiamano la mamma, mentre i cereali, specie il frumento, ci parlano del “padre”.

Ancora, i germogli sottintendono l’esplosione di nuova energia, il nuovo che deve ancora acquisire una forma definitiva, mentre i tuberi ci riportano al nostro nucleo originario, le forze depositate nella terra, le nostre radici.

Ma anche il modo in cui il cibo ci è stato somministrato da piccoli e la qualità delle emozioni sottese fanno la differenza.

Se, ad esempio, da bambini, ci è stato dato regolarmente il “ciuccio” come rimedio quando eravamo stanchi o nervosi, per distrarci dai capricci, ma anche come premio per un certo nostro comportamento, o per altri motivi che nulla avevano a che fare con la nostra fame fisiologica, crescendo tenderemo, spontaneamente, ad aprire il frigorifero per trovare una risposta anestetica alimentare immediata e compensatoria al disagio emotivo del momento.

La prossima settimana completeremo la “narrativa” sul cibo e significati simbolici.