Il riso

Proverbi giapponesi:

Mangia il tuo riso, al resto penserà il cielo.
Parlare non fa cuocere il riso.
Anche la migliore delle massaie non può,
se non ha del riso, preparare il suo pasto.

In Cina si dice:

Senza fatica non si mangia neppure un granellino di riso.
Il riso conserva sempre l’odore della terra in cui è maturato.

Se fai piani per un anno, semina riso.
Se fai piani per dieci anni, semina un albero.
Se fai piani per una vita, educa le persone.

India:

“Nel riso è sostanza e letizia”
lo affermano i Veda,
sacri testi indiani risalenti
al 2°-1° millennio a. C.

Il riso è la cariosside (un frutto-seme) della Oryza sativa, pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle Graminacee. Originario dell’Asia sud-orientale, coltivato fin dall’antichità, è oggi il cereale più diffuso nell’agricoltura mondiale, dopo il frumento.

A chi, come me, proviene dal “granaio” d’Italia, la Puglia , ha sempre fatto un certo effetto viaggiare in lungo e largo per il Nord e non riuscire a trovare, con la stessa facilità, il giallo intenso che caratterizza i campi di grano che sono il ricordo della mia infanzia.

Per qualche strana legge di compensazione, però, o forse per una mio ingenuo bisogno di ritrovare sempre, in qualsiasi cosa, “un volto familiare”, quel giallo dei ”miei” campi, il cui ricordo ho perso vivendo al Nord, l’ho ritrovato nelle tavole imbandite di tanti amici veneti, lombardi e non solo. È la polenta fumante, scodellata con incredibile maestria nel veneto “panaro” di cui parleremo più in là.

Ma è anche un incontro meraviglioso che ho fatto, un giorno, in casa di amici milanesi “doc”, quando mi hanno fatto conoscere uno dei piatti a mio avviso più affascinanti della loro cucina: il risotto con lo zafferano. “Assaggia, Angelo”, mi dissero, “noi lo chiamiamo risott giald”.

Ho scoperto solo in quel momento (i miei studi di scienza dell’alimentazione erano ancora di là da venire) che questo era ed è uno dei piatti tipici della cucina lombarda e, più specificamente, milanese.

Ricordo che mi chiesi cosa potesse entrarci una spezia particolare come lo zafferano, proveniente da un fiore colorato come il croco, con una terra così spesso immersa nel freddo e nelle brume. Solo più tardi ho conosciuto i veri colori di una regione davvero incantevole come la Lombardia.

Nel frattempo, però, quella sera, mi lasciai conquistare da questo squisito risotto, che mi aprì, letteralmente, un mondo.

Da amante della pasta di grano duro, pomodoro e basilico, mi sono ritrovato cultore anche del risotto, che poi ho voluto assaggiare nelle innumerevoli varianti che la cucina del Nord sa offrire. Mi ritrovavo, molto spesso, a chiedere con gentilezza, ma non senza una certa determinazione, che gli inviti a cena fossero a base di risotto, sperimentando a tavola come questo cereale si abbinasse a un numero illimitato di ingredienti.

Un amico vicentino mi ha fatto conoscere il risotto con il tartufo dei Berici e un amico trevigiano il risotto con il radicchio e poi via via, in quella che è divenuta una piccola gara tra regioni. Il risotto con la zucca di un amico emiliano, il risotto con le fave di un altro dalla Lombardia, il risotto alle castagne di un amico piemontese (ma anche quello con le bietole); il risotto di seppie di un altro, veneziano, e poi al curry, allo scampetto…

La notevole versatilità di impiego in cucina sposa armoniosamente il riso a carne, pesce, uova, formaggi, frutta, verdura così come ai condimenti più variegati, sughi e salse, che gli si attagliano perfettamente, tanto che, per me, il riso, è divenuto senza dubbio il secondo tra “i primi”.

Col tempo ho imparato ad apprezzarne anche le doti più propriamente organolettiche e nutrizionali.

Buona fonte di energia (circa 350 Kcal per etto), il riso apporta all’organismo il combustibile principe, l’amido, a “lento rilascio”. Questo, oltre a protrarre la sensazione di sazietà, (al contrario di carne e pesce e alla stregua di pasta e legumi, incamera acqua durante la cottura, fino a pesare più del doppio che a crudo) fa sì che il contenuto di zucchero nel sangue (glicemia) salga lentamente, con ripercussioni positive soprattutto per i pazienti diabetici.

Un confronto tra “primi”.

La pasta ed il riso sono entrambi fonti generose di amidi e come tali alternativi. Possono essere utilizzati quasi indifferentemente nella preparazione di ottimi primi piatti.

Differenze: l’amido della pasta impiega più tempo a trasformarsi in zucchero semplice, e, per questo, scongiura in modo più efficace i “picchi” glicemici. Ciò rende la pasta più indicata per i diabetici. Questa diversità spiega il perché della maggiore digeribilità del riso, non a caso alimento di elezione per convalescenti e neonati, oltreché per chi soffre di dispepsie o più semplicemente si sta riprendendo da un’indigestione.

Le proteine di entrambi i cibi non sono nobili come quelle di origine animale: per “completare” dal punto di vista nutrizionale un piatto di riso o pasta i vegetariani dovranno ricorrere a qualche cucchiaio di legumi. Ai non vegetariani potrà bastare un ragù. Il riso come già scritto è privo di quegli aminoacidi che nella pasta favoriscono, lievitando, la formazione di gliadina, sostanza che ne impedisce il consumo ai malati di celiachia. Poiché le proteine del riso non contengono glutine, il riso è proponibile anche per chi soffre di celiachia.

Il contributo calorico dei due alimenti allo stato puro è sovrapponibile. Tuttavia, il riso, se cotto nel brodo e poi condito (risotto), raccoglie inesorabilmente più grassi della pasta, che si bolle soltanto. Di fatto, un risotto apporterà più calorie e conterrà più grassi di una pasta al pomodoro o al ragù.

Il discorso ovviamente non vale per il riso bollito.

Il prossimo venerdì completeremo l’argomento “riso”.

Pane

La vita è come il pane:
col trascorrere del tempo diventa più dura,
ma, quanto meno ne resta,
tanto più la si apprezza.
(Indro Montanelli)

Memoria delle civiltà più antiche, abbraccia e racconta la millenaria storia dell’umanità, accomunando, nella sua fragranza, le diversità dei tanti popoli che hanno realizzato lo sviluppo del genere umano.

Il pane, dunque, come bandiera. Anzi, al di sopra di qualsiasi bandiera. Perché se è pur vero che le bandiere sintetizzano in un’unica combinazione di colori e di simboli l’anima di una nazione, il pane fa molto di più: cambia la propria forma, il proprio colore, il proprio sapore, la propria consistenza di regione in regione, di città in città.

E’ il simbolo dei tanti luoghi che fanno un Paese, demarca le tradizioni, la storia, i valori. Traccia i confini delle diversità per poi unirli, in un unico grande caleidoscopio del gusto.

E’ risaputo che, se si vuole veramente conoscere un popolo, non ci si può fermare al vessillo che sventola sulle navi o nei palazzi delle istituzioni, ma ci si deve sedere a tavola e spezzare il pane in un gesto di comunione, che, non a caso, è diventato il simbolo di una religione.

Onnipresente sulle tavole, si accompagna sobriamente ma senza remore reverenziali a tutte le pietanze.

Di mille forme e mille sapori, riesce a caratterizzare l’inventiva dell’artigiano e gli aspetti tradizionali del luogo di produzione. Biondo, morbido, croccante, lungo o filoncino, piccolo o panino e poi soffiata, zoccoletto, mantovano, tartaruga, ciabatta, di Altamura, al sesamo, alle olive, e di altre mille forme e sapori, è il Diabolik dell’alimentazione capace, con I suoi innumerevoli volti, di presentarsi sempre con un’immagine nuova e al tempo stesso consolidata.

Pane, grissini o cracker? E ancora, meglio il toscano-umbro o i formati più piccoli? E poi, bianco o integrale? E i panini all’olio? I tipi a grande pezzatura, quelli della tradizione, sono da preferire. Certo, nulla vieta di passare, di tanto in tanto, ai panini all’olio e, perché no, alla pizza bianca o alla focaccia. Il pane “alla toscana” prodotto dalle farine di migliore qualità, è quello capace di dare il più elevato contributo di carboidrati (e si tratta quasi esclusivamente di amidi, e in minima percentuale di zuccheri semplici) limitando al minimo l’introito di grassi e, non ultimo, di sodio.

Già il passaggio a formati più fantasiosi e “difficili” da produrre, come la pur classica rosetta, comporta un introito lipidico quadruplo. Come già altrove ribadito, i carboidrati complessi sono propri della migliore qualità di cereali. Privarsene è un grande errore.

In grissini, cracker e simili, i lipidi aumentano esponenzialmente e, anche applicando certe equivalenze care agli integralisti delle diete dimagranti, tipo “30 grammi di cracker al posto di un etto di pane”, si va in perdita.

È vero che le calorie calano (da 280 a 130 circa) ma i grassi in entrata si moltiplicano di 6-7 volte. Inoltre, la capacità di sfamare, tipica del pane, è ben altra cosa rispetto a quella di cracker, grissini e simili, che, nella meno improbabile delle ipotesi, si trasformano in pericolosi “stuzzichini”.

L’aura di alimento dietetico rivestito dai “sostituti” del pane è immeritata. Si può pensare che cracker, grissini e fette biscottate facciano dimagrire solo se si compara, un po’ superficialmente, la “monodose” con la porzione usuale di pane di chi non è abituato a controllarsi.

Insomma, se il giorno che decido “da oggi mi metto a dieta”, riduco i miei usuali 120-150 g di pane a pasto al pacchettino da 30 g di cracker, e lì mi fermo, il trucco funziona. Altrimenti, cracker e altri sostituti del pane sono un’arma a doppio taglio. Rispetto all’alimento base, questi sono innanzitutto arricchiti di grassi. Inoltre, sono ricchi di sodio (anche quelli senza “sale in superficie”) in misura tale da scoraggiarne un uso frequente, considerando che la nostra razione alimentare è già troppo “salata” rispetto alle necessità dell’organismo.

In conclusione, essendo molto secchi e relativamente grassi, i cracker garantiscono un apporto calorico elevato in assoluto: 420-440 calorie per etto, contro le 300 del pane, ma tutt’altro che trascurabile, anche considerando la monoporzione. In merito al pane, oltre al grande beneficio per il palato, non è il caso di sottovalutare il volume, parametro importante per accontentare lo stomaco, ovvero generare un senso di sazietà.

PANE AZZIMO

La scoperta del fuoco, uno degli eventi più importanti e suggestivi nella storia dell’uomo. In ambito mitologico, Prometeo ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini. Con la scoperta del fuoco, l’uomo primitivo imparò a tostare i chicchi, rendendoli più gustosi e digeribili. In seguito, si accorse che sfregando tra due pietre i chicchi arrostiti di farro per liberarli dalla pellicola non commestibile che li riveste (glume), si produce una farina grossolana che può essere mescolata ad acqua per farne una pappa. Fu del tutto casuale scoprire che l’impasto di cereali e acqua, lasciato su una pietra rovente, si asciugava in una crosta appetitosa, una focaccia molto bassa, non lievitata, ovvero il primo pane.

Il pane, dunque, nasce azzimo, vale a dire senza enzimi, non lievitato. Sono molti i paesi che hanno tuttora il proprio pane non lievitato. Essendo a rigore senza lievito, per la legislazione italiana non dovrebbe essere considerato pane. Si va dall’italianissima piadina, crescentina o tigella, al chapat, pane tipico indiano (galletta di frumento integrale) il cui impasto è steso in dischi sottili e cotto su piastre a diretto contatto con il fuoco. Ci sono poi le “cachapas” venezuelane che presentano un impasto molto morbido e che sono simili alle crepes; si ottengono mescolando farina di mais con acqua e un po’ di sale. Ci sono poi le “tortillas” messicane, preparate anche con altri cereali e impastate con meno acqua per essere più croccanti.

Il pane azzimo è il pane della memoria, alimento Kashèr, corrispondente a precisi requisiti di conformità alla prescrizione biblica e, nell’immaginario collettivo, strettamente legato al popolo ebraico.

Azymos, privo di lievito, che in ebraico diventa “mazzah”, è il pane della purezza, preparato unicamente con farina di frumento e acqua, senza lievito e sale, considerati ingredienti impuri che avrebbero intaccato l’integrità del cibo da offrire al Signore: “Nessuna offerta di cereali in sacrificio a Jehova dovrà essere preparata con lievito” (Levitico 2, 11).

La digeribilità dopo la cottura dell’impasto è condizionata dalla quantità di acqua residua. Di solito il pane azzimo ha una cottura prolungata, utilizzata su forme molto sottili che consentono la cottura anche nella parte interna. Questo richiede una prolungata masticazione consentendo agli enzimi contenuti nella saliva di iniziare la digestione dell’amido già nella cavità orale.

La prossima settimana parleremo di riso.